Dir male di Garibaldi
Giuseppe Garibaldi, molti anni prima che gli spuntasse sul mento il primo pelo biondo, era un ragazzino imberbe, ma già piuttosto vivace. Un giorno, nel cortile della scuola, durante l’intervallo, scatenò una vera e propria battaglia a base di lanci di pezzi di carbone,. «Giochiamo ai carbonari» tentò di giustificarsi col maestro, sopraggiunto nel mezzo della mischia e colpito da una dozzina di proiettili. Ma quello, poco patriottico e molto furente per le intemperanze del futuro Eroe dei Due Mondi, corse a lamentarsi dal direttore:
«Garibaldi è un... un... » tuonò, rosso di rabbia.
«Un che cosa?» chiese il direttore, incuriosito.
«Un... un...» gemette il povero insegnante, che pareva colto da un attacco di balbuzie fulminante.
«E allora? Volete decidervi?» cominciò a spazientirsi il direttore.
«Un... bravo ragazzo!» sbottò il maestro, a cui gli occhi cominciavano a riempirsi di lacrime per la disperazione.
«Suvvia, non è il caso di commuoversi così... Cos’ha fatto il nostro bravo allievo? Ha salvato un’altra lavandaia?». (Il piccolo Garibaldi era solito trarre a riva lavandaie, preferibilmente giovani e prosperose, in procinto di affogare, il che lo aveva reso famoso nonché inviso ai bagnini).
«Ma no, volevo dire che è un... un giovinetto beneducato!» barrì il maestro, ormai cianotico, poi restò come inebetito, farfugliò qualcosa e uscì barcollando dall’ufficio del direttore. Si era reso conto, per primo, di una stupefacente e inspiegabile realtà: era assolutamente impossibile dir male di Garibaldi.
Negli anni seguenti molti ebbero modo di sperimentare questo portentoso fatto. Nel 1825 tale Giobatta Gianchetti, marinaio, a cui il diciottenne Garibaldi aveva portato via la ragazza e fatto un occhio nero, fu udito esclamare:
«Quel Peppino è proprio un... simpaticone!».
Nel 1839 il ferocissimo colonnello brasiliano Francisco Pedro de Abreu, detto “El Moringue”, ritirandosi sconfitto e impallinato dal grande Nizzardo in trasferta in Sudamerica, gridò ai pripri soldati:
«Garibaldi è un gran figlio... della sua nobile terra!».
Nel 1848 toccò a un intero battaglione di Austriaci in rotta ululare un coro:
«Garibaldi, che possa... vivere cent’anni!».
Insomma, non c’era nemico, per acerrimo e imbelvito che fosse, che riuscisse a esprimere la propria reale opinione circa il biondo e barbuto condottiero. E ciò che faceva ancor più schiattare di rabbia i malcapitati era il fatto che la cosa venisse interpretata come prova del fascino esercitato da Garibaldi. Succedeva anche che qualche povero soldato austriaco o borbonico venisse messo agli arresti per avere parlato bene dell’avversario:
«Garibaldi è un pezzo... di marcantonio! No, volevo dire che vorrei vederlo... vincitore!» mugolavano gli sventurati in ceppi, e un sergente croato, soprannominato “Grunt” per la sua gentilezza d’animo, prima di perire di un accesso di bile riuscì a incidere sul muro della cella la scritta: “Garibaldi è bello”.
Nell’autunno del 1860, al termine dell’impresa dei Mille, Francesco II di Borbone veleggiava tristemente verso l’esilio. Era stato sconfitto in mezza dozzina di battaglie, aveva perso il Regno delle Due Sicilie, tutte le ricchezze, la faccia e persino un mastino napoletano di nome Gennarino che era corso scodinzolando dai garibaldini vincitori.
«Chisto Garibbaldi è ‘nu...» cominciò il sovrano, e tutti i marinai si fermarono a guardarlo, con il fiato sospeso.
«È proprio ‘nu...» ansimò mentre il cielo si andava addensando di nubi minacciose. «’Nu fe...» sibilò tra il brontolio dei primi tuoni. E voleva dire “fetentone”, ma non riuscì a controllarsi e gli uscì un «... ‘nu fedele suddito di Vittorio Emanuele!». I marinai scossero il capo e tornarono a occuparsi delle vele, il cielo tornò sereno e Franceschiello uscì definitivamente dalla Storia.
La popolarità di Garibaldi era tale che moltissimi “fans” diedero il suo nome ai loro figli. Un falegname di Cantù arrivò al punto di battezzare “Garibaldi” tutta la numerosa prole, maschi e femmine, e per distinguerli ricorse all’espediente dei diminutivi (Baldino, Aldino, Dino, Dina). Questa moda si diffuse anche oltreoceano e durò per parecchio tempo, come dimostra il caso di Gary (diminutivo di Garibaldi) Cooper. E vi fu addirittura chi, per eccesso di zelo, giunse a dare il nome dell’Eroe al cane prediletto, al cavallo più bello, alla mucca che produceva più latte. Avvenne così che un giorno un contadino della Sila si trovasse alle prese con il proprio riottoso asino di nome Garibaldi, che si era impuntato e non voleva saperne di camminare. Il contadino provò con le buone, con le cattive: niente da fare.
«Questo Garibaldi è davvero un gran testardo!» sbraitò alla fine.
La frase fu udita dai vicini e in un battibaleno si diffuse da un capo all’altro della penisola: si poteva dir male di Garibaldi! Povera Italia!
Quel giorno si chiudeva ufficialmente il Risorgimento.
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