Aneddoti lirici
Enrico Tamaruso, appena venuto alla luce, lanciò uno strillo di petto che incrinò le lenti degli occhiali del medico e fece saltare la capsula di un dente alla levatrice.
«Questo ragazzo ha un avvenire nella lirica» sentenziò Giuseppe Tamaruso, padre di Enrico.
Il signor Giuseppe se ne intendeva, essendo uno stimatissimo pernacchiatore di spalla della filarmonica dei loggionisti al Teatro Regale. Perciò non pose tempo in mezzo, infagottò alla meglio l’infante e lo portò subito dal maestro Blusoni insieme a un centinaio di bottiglie di lambrusco. Il vecchio maestro Giacinto Blusoni era una gloria musicale nazionale, per aver suonato la carica alla battaglia di Solferino: ascoltò gli strilli del neonato Enrico, stappò una bottiglia con i denti, la scolò di un fiato e annuì solennemente col capo. Quindi cadde addormentato sul pianoforte, russando in si bemolle. Seguirono anni di studio intenso, finché un giorno il maestro, con le lacrime agli occhi e la voce rotta dall’emozione, congedò l’allievo dicendogli:
«Ragazzi, voi avete un avvenire nella lirica!». (Il plurale si spiega con il fatto che il Blusoni, per via del lambrusco, era sempre stato convinto di avere a che fare con un duo).
L’esordio di Tamaruso sulla scena avvenne, naturalmente, al Teatro Regale, banco di prova del bel canto.
Come noto, il pubblico del Regale si disinteressava completamente dell’opera e durante i primi atti passava il tempo in partite e a briscola, cori di canzonacce, gare di bocce nel foyer. Questo finché tre squilli di tromba dal loggione annunciavano che era il momento del do di petto: allora tutti gli spettatori riprendevano i loro posti di combattimento in platea, sui palchi o nel loggione, restando lì immobili con il fiato sospeso, e perfino i tarli tendevano l’orecchio cessando di rosicchiare le decrepite scenografie (se per caso a qualcuno del pubblico sfuggiva un inarrestabile starnuto o un colpo di tosse, veniva immediatamente imbavagliato e legato dai vicini).
A quel punto, se l’acuto del tenore faceva tintinnare le gocce di cristallo del colossale lampadario, piovevano gli applausi. Se riusciva a far tremare i vetri dei finestroni del ridotto, era un delirio. Se poi cadeva anche qualche calcinaccio, allora gli spettatori catturavano il cantante, lo caricavano sulla carrozza e, dopo aver staccato i cavalli, lo portavano in trionfo per le vie della città.
Se invece non succedeva niente, la gente dava fuoco al teatro e al Municipio e cominciava a erigere barricate.
Il pubblico del Regale aveva i suoi idoli: il basso Dimitri Borisnoff, per esempio, il quale possedeva una voce che pareva il tuono e talvolta riusciva perfino a far piovere; oppure il soprano Eleonora Bragonzoni Baldi, che aveva calcato le scene di tutto il mondo sfondando coi suoi 128 chili decine di impiantiti e soffocando numerosi tenori nei duetti d’amore.
Non era dunque facile superare l’esame del pubblico del Regale, abituato a giudicare i cantanti in base alla scala Mercalli. Venuto il fatidico momento del do di petto, Enrico Tamaruso si sentì le ginocchia di gelatina e la gola di carta vetrata, mentre il cuore gli pulsava come se volesse evadere dalla gabbia toracica e darsela a gambe prima che fosse troppo tardi. Il tenore stava per seguire lo stesso impulso e fuggire fuori dal teatro, ma in quell’istante fiutò un aroma di lambrusco e gli parve di udire gli squilli della carica di cavalleria suonati da una tromba lontana: era il defunto maestro Blusoni che lo incitava dall’alto. Allora respirò profondamente, gonfiò i polmoni tanto che i bottoni della camicia schizzarono via mitragliando gli orchestrali e sfoderò un do di petto che fece venire giù il teatro. Letteralmente. Enrico Tamaruso uscì a fatica dai detriti ed entrò ufficialmente nella leggenda.
Ormai celeberrimo in patria, Tamaruso decise di sfondare anche in America. Qui era ancora poco noto e quando una sera gli staccarono i cavalli dalla carrozza fu per tutt’altri motivi, visto che gli portarono via anche l’orologio e il portafoglio. Ma ben presto il tenore divenne una stella del Metropolitan e la sua fama dilagò come un fiume in piena per il mondo intero.
Carico di gloria, di onori e di dollari, Enrico Tamaruso fece ritorno in Italia, ma qui lo attendeva una spiacevole sorpresa: ora il Regale aveva un nuovo idolo, lo spagnolo Fulgencio Carboneros, che nel “Trovatore” aveva fatto saltare i vetri di tutto il centro storico.
Si rese necessaria una sfida e questa avvenne in un memorabile recital dei due tenori.
Si esibì per primo il Carboneros, e sparò un acuto da 300 millimetri che sfondò il soffitto e andò a perdersi fra le nubi d’alta quota.
I loggionisti si catapultarono fuori come folli in cerca della carrozza del giovane divo, che sorrideva beato, convinto di avere la vittoria in pugno.
Tamaruso lanciò al rivale un’occhiata di disprezzo, poi saettò il suo acutissimo: un tiro di precisione che staccò due gocce dal lampadario, carambolò sul palco reale e tornò a boomerang dritto sulla mascella del Carboneros, stendendolo.
Il direttore d’orchestra contò fino a dieci, poi decretò il K.O. La gente riattaccò i cavalli alla carrozza di Carboneros e portò in trionfo Tamaruso. Da allora, per il mitico tenore fu un susseguirsi di successi clamorosi.
Enrico Tamaruso morì in miseria, rovinato dai continui acquisti di cavalli nuovi per la sua carrozza.
<< torna a "Testi"